La Grotta del Brigante

Grotta del Brigante, interno

LA CAVERNA NELLA GRAVINA DEL VUOLO:
QUARTIER GENERALE DEL SERGENTE ROMANO E DEL BRIGANTAGGIO DI PUGLIA

Partendo dall’attuale MASSERIA SIGNORA ® nel territorio di Martina Franca, dopo qualche centinaia di metri, inizia la gola carsica conosciuta come gravina del Vuolo, che incide per alcuni chilometri le ultime propaggini collinari dei monti delle Pianelle. In questo paesaggio suggestivo, ancora impervio, fatto di pareti a strapiombo e ripidi pendii, tra radure verdeggianti e una folta boscaglia di querce, sono state individuate dagli speleologi circa una dozzina di grotte e ripari sotto roccia. La più grande si apre alla base di una imponente falesia calcarea che si eleva maestosa dalla folta vegetazione sul versante orografico W della gravina (Grotta del Vuolo n. 1 – sin. Grotta del sergente Romano Pu. 899). Un ampio ingresso a semicerchio immette in un ambiente dalla forma quasi rettangolare con il lato maggiore lungo 28 m. Difronte all’ingresso, percorsi 17 metri, un’apertura conduce in una stanza sopraelevata di 10 metri per 14.

Nell’agosto 1862, i briganti delle province di Bari e Lecce, per ordine del comitato centrale romano, convennero al bosco Chianella, nelle adiacenze di Martina Franca, per dare unità direttiva al movimento reazionario e fondere in una grande compagnia tutte le torme fin allora frazionate e disperse. All’adunanza, che fu tenuta nei profondi recessi di una vicina grotta, capace di oltre duecento cavalli, parteciparono il sergente Romano, Mazzeo, Valente, La Veneziana, De Palo, Trinchera, Locaso, Monaco, Terrone, Testino; e tutti riconobbero l’opportunità dell’accordo, nel duplice intendimento di fronteggiare con maggiore vigoria le ostilità sempre più minacciose della truppa ed effettuare con sollecitudine il vagheggiato programma della restaurazione borbonica. Giurati i vincoli dell’alleanza e costituita un’orda di circa duecento uomini, quasi tutti a cavallo, il sergente Romano, che fra quelle turbe destituite d’ogni cultura eccelleva per intelligenza ed autorità, ottenne il comando supremo con il grado di “maggiore”, mentre gli altri condottieri, in conformità alle attitudini personali e a seconda del maggiore o minor numero di seguaci fino ad allora capeggiato, furono eletti capitani, sergenti e caporali. Orgoglioso di tanto onore, il Romano si accinse all’opera, proponendosi di esplicare un’azione gagliarda; e poiché la provincia di Bari, ove già si andavano concentrando numerose forze, non porgeva facili speranze di riscossa, pensò, d’accordo con gli altri caporioni, di trasferire il campo delle operazioni nel Brindisino. Pertanto, ai primi di settembre, la grande comitiva era già nella penisola salentina, e quivi per lo più si trattenne fino agli ultimi giorni di novembre. Il vandalismo agrario e le stragi, che per un intero trimestre desolarono quelle cittadinanze, sorpassano ogni immaginazione: smantellate le masserie dei liberali, bruciate le messi, interrotte le comunicazioni, sospeso il traffico: tutta la vita economica e civile della regione fu sottoposta all’arbitrio dei reazionari, la cui baldanza trascese a tali eccessi che agli occhi del popolino e della stessa borghesia parve addirittura imminente il crollo dell’edificio nazionale e il ritorno del decaduto monarca.

Ma dopo il conflitto della Badessa, il Romano, che con la sua tormentosa guerriglia aveva attratto nel Leccese molte forze regolari, pensò di sottrarsi all’urgente pressione della truppa, trasferendosi nella pristina sede di Chianella. Partito dal litorale adriatico, il 21 novembre, per l’istmo collinoso della penisola messapica, fra Brindisi e Taranto, – discese nell’opposto versante. La notte del 22 si fermò con tutta la banda alla fattoria Santoria, nei dintorni di Torre Santa Susanna, e la mattina seguente, provvedutosi colà di viveri e di biada, si accinse a partire, dichiarando in arresto il massaro De Biase, reo di avere obbligato i suoi contadini ad acclamare Vittorio Emanuele re d’Italia. Indotti dalle vive insistenze dei familiari di quell’infelice, i masnadieri consentirono di rilasciarlo, previo riscatto di mille piastre; e poiché quelli ne offrivano solo trecento che avevano a disposizione, rigettarono la proposta con parole di sdegno. Gli sventurati, lacrimando, chiesero una breve dilazione per procacciarsi la somma vistosa; ma i banditi, specialmente Pizzichicchio che conduceva le trattative, non accolsero neppure tale richiesta e trascinarono via, in groppa ad un cavallo, il vecchio patriota, che nella macchia di Avetrana incontrò la pena di morte con armi da fuoco e da taglio. Dalla fattoria Santoria,- nelle ore antimeridiane del 23 i ribelli prendono la via di Erchie e sostano alcune ore presso il piccolo villaggio, dove, a somiglianza di Grottaglie, Crispiano, Statte, Carovigno, Palagianello ed altri Comuni del Leccese, si rinnovano le solite dimostrazioni popolari inneggianti al Borbone e alla fede. Verso mezzogiorno si allontanano di là, incamminandosi verso la marina ionica; durante la notte successiva si attardano fra i boschi di Maruggio, nei quali abbandonano un compagno di Santeramo in Colle, moribondo per le gravi ferite riportate in Erchie; e sul mattino del 24, per i territori di Grottaglie, Massafra, Mottola, devastando masserie, rompendo fili telegrafici e schivando fra mille peripezie gli incontri con la truppa, arrivano al bosco Chianella, ultima tappa del periglioso e lungo itinerario. In questo mezzo il Romano, imbaldanzito di tanti prosperi successi, medita un folle disegno: fondersi con la banda Crocco, muovere su Brindisi e impadronirsi della Terra d’Otranto; indi, raccolte grandi masse di popolo, correre su Gioia, Noci ed altri comuni del Barese,- inalberando dappertutto il – vessillo della controrivoluzione. Allettato dal chimerico piano, spedì messi al Donatello, che si trovava in Basilicata, e mandò in giro per le campagne otto manipoli di arruolatori, al fine di raccogliere gente, armi e cavalli. Se non che Carmine Crocco, cui la politica serviva di pretesto ad accumular quattrini, dapprima richiese alcuni giorni di tempo per una definitiva risposta, e poi, adducendo futili motivi, dichiarò senz’altro di non poter assecondare l’iniziativa del temerario collega. Il sergente Romano, intanto, rafforzata con nuove reclute la compagnia, esce dal bosco di Chianella in cerca di nuovi trionfi; ma le milizie italiane, rese ormai vigili ed esperte dalla dura esperienza, lo attendono al varco.

Sul cadere del primo dicembre, l’intera compagnia si ferma alla masseria dei Monaci di San Domenico, tra Noci ed Alberobello. Erano lì presenti circa centosettanta uomini con tutti i caporioni del brigantaggio salentino e barese: Romano, La Veneziana, Pizzichicchio, Monaco, Valente, Quartulli, Locaso, De Palo e altri. Il sedicente maggiore ordina alla ciurma di scendere da cavallo e di riposarsi nell’ampio caseggiato, mentre lui, espertissimo dei luoghi, con quaranta seguaci, va in cerca di viveri e foraggi. Molti dei banditi si andavano adagiando nei fienili, ed altri si apprestavano a desinare o attendevano al governo dei cavalli, quando, d’improvviso, la sedicesima Compagnia del decimo Reggimento di Fanteria, condotta dal capitano Molgora, sbuca fuori dalle circostanti macchie e piomba sui masnadieri scompigliati e dispersi. La Veneziana, Pizzichicchio e Valente, chiamati a raccolta i compagni, affrontano i soldati e si battono coraggiosamente in prima linea. Mentre la mischia infuria e la banda già ripiega, sopravviene il Romano, che era atteso con ansia; ma scorto il disordine dei suoi e il sopravvento della truppa, getta via le insegne del comando e, postosi in capo il berretto di un compagno, volge le terga. Alla fuga del condottiero segue una rotta piena ed irreparabile: muore La Veneziana, son feriti Pizzichicchio e Quartulli, cade prigioniero Scipione De Palo con altri nove banditi, e son catturati più di ottanta cavalli con armi e bagagli. Trentacinque briganti, che riposavano in un pagliaio e non presero parte alla zuffa, sfuggirono per miracolo alla cattura; dei restanti, molti, col favore delle tenebre sopraggiunte, se ne andarono – ai loro paesi; altri, dopo essersi aggirati per molte ore fra i boschi, tornarono alla grotta Chianella. Capi e gregari, superstiti di una grave sconfitta, tennero un’adunanza; e dopo una vivace discussione, durante la quale si coprirono di villanie, accusandosi d’imperizia e di viltà, decisero lo scioglimento della comitiva. La sera del 7 dicembre, i vari capi partono per vie diverse: Valente, con sedici o diciassette compagni per Carovigno; Monaco con altrettanti per Ceglie Messapica; il Capraro per Ginosa; e Pizzichicchio, riavutosi dalla ferita, per la Basilicata. Quindici fuoriusciti, avendo espressa la risoluta volontà di abbandonare la masnada, sono dichiarati vili, e quindi licenziati. Il Romano, diminuito di autorità e di grado, resta nelle Chianelle con una cinquantina dei più antichi e fedeli proseliti. Era completa la dissoluzione, imminente la sua fine.

(Testo a cura di Silvio Laddomada)